Non è ancora dato sapere se il 30 novembre 2022 è una data destinata a passare alla Storia, siamo ancora troppo dentro all’incredibile trasformazione messa in atto dalla comparsa dell’intelligenza artificiale generativa nel nostro quotidiano. Certo è che la corsa, folle sotto ogni aspetto, ha avuto origine con il rilascio al pubblico di ChatGpt, tre anni fa appunto, cioè con l’apertura alla massa – strategia necessaria per “allenare” il sistema con miliardi di input/dati freschi – di quello che in assoluto è il prodotto con il più veloce tasso d’adozione della Storia, anche qui maiuscola. Secondo gli ultimi dati, sono circa 800 milioni le persone che utilizzano ChatGpt ogni settimana (ma c’è chi dice che siamo già arrivati al miliardo), cioè praticamente un essere umano su dieci si diletta – mettiamola così per il momento – con uno strumento che fino a tre anni fa afferiva ancora più al dominio della fantascienza che a quello della scienza. Figuriamoci se si pensa poi alle ricadute appunto quotidiane, con persone – quante? – che viaggiano smartphone alla mano per chiedere a “Chat” spiegazioni e consigli su qualunque cosa, due chiacchiere (più o meno) mirate con l’Ai da mattina a sera.
Perché l’intelligenza artificiale è vero che ci propone una delega cognitiva in stile calcolatrice o Google Maps, giusto per citare due esempi ben comprensibili, ma ha una portata trasformativa – e di potenza/ampiezza di delega – del tutto differente: Platone, ripercorrendo il suo Fedro (e il Mito di Teuth), avrebbe detto che ha la stessa portata trasformativa della scrittura, e probabilmente di più. E non ne sarebbe stato contento. La potenzialità della Ai è di trasformare a fondo il nostro modo di pensare, di usare la nostra potenza di calcolo, la nostra memoria: Demis Hassabis, Nobel a capo di Google Deep Mind, diceva significativamente che in futuro la scuola delle nozioni non sarà più (così) necessaria. Servirà imparare le competenze, servirà imparare quanto di umano ci distingue dalla Ai. Altrimenti saremo umani inutili.




